Turismi da incubo #18: commodity sardinia

Kotler sta al marketing come Dylan alla  musica: nessuno può negare di averne subito una piccola o grande influenza.
L’arte del marketing – dice da sempre – è quella di costruire un marchio: “If you are not a brand, you are a commodity. Then price is everything and the low-cost producer is the only winner.”
Una riflessione che ci potrebbe aiutare a capire meglio il futuro del turismo in Sardegna.

La differenza tra un marchio (brand) e un prodotto indifferenziato (commodity), non è trascurabile per le conseguenze commerciali che si trascina dietro. Lo spaghetto Barilla, per fare un esempio, è un brand che la comunicazione di questi anni ha collocato in una casella della mente ricca di significati. In questo spazio il memorabile “dove c’è Barilla c’è casa” di Gavino Sanna rappresenta solo il principio della storia. Un posizionamento differente rispetto ad Agnesi (ricordato ancora oggi per “silenzio parla Agnesi”) e lontanissimo dal posizionamento della pasta del discount, volutamente anonima e indifferenziata, ma offerta ad un prezzo del 40%-50% più basso.

Strategie diverse per target diversi, con conseguenze diversissime sui conti economici e sui processi di fidelizzazione delle aziende che le hanno ideate.

E la Sardegna del turismo è già un brand o è ancora una commodity?

Cioè si vende sui mercati turistici come una destinazione che ha pienamente sviluppato il potere del suo brand riscuotendo attenzione e generando fedeltà o rischia di essere confusa dentro uno scaffale fatto di prodotti di massa, un po’ grossolani, cheap e tristemente indifferenziati sul mercato delle vacanze?

Nel primo caso, riuscirebbe a garantirsi una forza competitiva da leader di mercato e non avrebbe molto bisogno di andare da Ryanair con il cappello in mano. Al contrario, il potenziale viaggiatore sentirebbe il bisogno fortissimo di venire in Sardegna e alimenterebbe sul mercato una domanda creativa e potente.

Nel secondo caso, Sardegna rischierebbe di essere solo una delle tante righe sul menù a tendina di un “calendar shopping”, ordinato in base al minor prezzo. Avrebbe solo la forza di una commodity indifferenziata e competerebbe su mercati dove “il prezzo è tutto”. E dove il vincitore è il territorio che riesce a produrre turismo al costo più basso, a prescindere da tutte le altre connotazioni qualitative o culturali. Un’arena dove si gioca al ribasso,  dove reciterà un ruolo passivo, rischiando di essere ostaggio di operatori low-cost che sposteranno milionate di viaggiatori a loro piacere, comandando il gioco per rendersi indispensabili.

…… If you are not a brand, you are a commodity.
Ecco perché le orde di turisti arrivati con il vettore irlandese appaiono più attratte dal prezzo che dalla destinazione. Ed ecco perché – a ben vedere – sono maledettamente infedeli. Per 15 anni abbiamo scommesso somme ingentissime per farli innamorare di questa magica isola e loro, invece, irriconoscenti fedifraghi, seguono imperterriti un pifferaio magico che vende passeggeri agli aeroporti, un tanto al chilo?

Quindici anni di sforzi apparentemente inutili (e maledettamente costosi) per scoprire amaramente che queste politiche low-cost-dipendenti non riescono affatto a costruire un prodotto Sardegna in grado di stare sul mercato con le proprie gambe.
Un brand Sardegna, che non riesce ancora a camminare da solo.
Se non sei un marchio – tuona Kotler – sei solo una merce. Peggio, sei una delle tante altre merci che si affannano a trovare  spazi e visibilità sull’affollatissimo catalogo turistico mondiale.
Ma chi combatte solo sul terreno del prezzo, rischia di vendere un prodotto indifendibile appena qualcuno riesce a proporre un prezzo inferiore, magari – come spesso accade – perché il costo del lavoro del competitor non risponde alle regole etiche, contributive e di tutela alle quali noi ci uniformiamo.

Insomma, se ti affidi al genio del low-cost e gli consenti di essere dominante,  ti illudi di aver fatto molta strada, molto facilmente e molto velocemente. Ma nella migliore delle ipotesi, hai solo risolto un problema nell’immediato.
Ogni dipendenza, portata all’estremo, tende a sfociare in una patologia. E’ già successo a Girona, Trapani, Forlì, Verona. Sta succedendo negli aeroporti Pugliesi.

Non sviluppando il branding si rischia di cedere il controllo del proprio percorso di sviluppo strategico, di trascurare la costruzione di una propria identità, forte, definita, unica.

La domanda è una sola: senza scomodare “le 22 immutabili leggi del branding”, è troppo tardi per cominciare con piccole azioni a costruire un brand e smettere di essere solo una commodity?

Lascia un commento